Il mobbing è stato definitivo da Harald Ege, psicologo del lavoro, “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro”, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte di colleghi e superiori”.
Non sempre è facile, in realtà, riuscire a provare in giudizio la ricorrenza del mobbing, in particolare nelle ipotesi in cui manchi la ripetitività dei comportamenti vessatori.
Ebbene la giurisprudenza italiana, già da qualche anno, al fine dare la giusta tutela a quei prestatori i quali subiscono episodi, anche singoli, di stress forzato all’interno del contesto lavorativo, nel rispetto del disposto dell’art. 2087 c.c. (che stabilisce: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro“), è ricorsa alla figura dello straining.
Lo straining, più nello specifico, si concreta nei casi in cui un datore (o anche un collega) attui un comportamento vessatorio, pure non continuo, nei confronti di uno specifico lavoratore per opprimerlo e/o per umiliarlo.
Sul punto, invero, si è così espressa di recente la Suprema Corte: “Così facendo però la Corte non ha fatto buon governo delle regole di diritto che vengono in rilievo in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore essendo oramai risalente l’orientamento (Cass. n. 3291 del 19 febbraio 2016) secondo cui, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica) … E’ invero è noto l’orientamento costante di codesta Suprema Corte (sent. n. 18164/2018, n. 3977/2018 n. 7844/2018,12164/2028, 12437/2018, 4222/2016) , secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle OMISSIS ma sempre riconducibile all’art. 2087 cod. civ., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (Cass. 29 marzo 2018 n. 7844, Cass. 10 luglio 2018 n. 18164, Cass. 23 maggio 2022 n.16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428)” (Cass. Civ., sez. Lav., Ord. n. 29101/2023 di seguito allegata).
Lo studio è a disposizione per valutare la sussistenza di eventuali situazioni di mobbing o di straining nel luogo di lavoro al fine di ottenere in giudizio il ristoro dell’ingiusto danno patito.